Solarkiosk © Andreas Spiess, SOLARKIOSK AG / ZHdK

Il design svizzero può salvare il pianeta?

Il «design sociale» smaterializza l’oggetto per rispondere alle grandi sfide economiche, ambientali e sociali di oggi e di domani. Una pratica in pieno sviluppo in Svizzera che sta cambiando il volto di questa disciplina.

Imitato, a volte troppo enfatizzato, onnipresente... il design ha ormai una definizione così vaga da non dire più molto. O da dire troppo. Ma allora, che cos’è il design? Simboli del benessere negli anni 1960, gli oggetti di design sono diventati per alcuni un mezzo per distinguersi socialmente attraverso l’organizzazione degli spazi casalinghi. Ma questo modo di vedere le cose sta cambiando. L’oggetto di design è sempre meno uno status syimbol e sempre più «sociale».

Di fronte a un mercato ormai saturo e all’esigenza di fare un uso sostenibile delle risorse planetarie, i designer stanno trasformando il loro campo di ricerca per rispondere alle sfide di un mondo globalizzato. Oggi i temi di cui si occupano sono più astratti e comprendono questioni sociali, ecologiche, politiche e umanitarie. Progettano tende per i profughi, pompe dell’acqua ergonomiche da usare nel Sahel, case fai da te... E immaginano le soluzioni più adatte alle varie problematiche ambientali e sociali. Le scuole e i designer svizzeri danno un contributo a questo movimento con le loro ben note competenze e il loro pragmatismo. 

La designer vodese Sibylle Stoeckli, ha rivisitato 30 oggetti in legno di elevata qualità artigianale e frutto di una produzione equa e regionale. © Jonas Marguet

La ricerca di soluzioni immateriali

La disciplina, nata negli anni 2010, ha cercato a lungo di darsi una definizione. Adesso ha finalmente un nome: social design o design sociale. E non è sorprendente che all’origine di questa trasformazione ci sia la Danimarca. Nel 2011 la città di Copenaghen ha organizzato presso il Dansk Design Center una mostra pionieristica dal titolo «Challenge Society», la prima a occuparsi della smaterializzazione del prodotto nel design. Sulla base di esempi concreti questa mostra ha delineato nuove strategie di progettazione per affrontare i problemi del settore pubblico danese, come la qualità della vita nelle carceri o nelle case di riposo.

Da allora l’approccio del design sociale ha preso piede negli Stati Uniti e in Europa. Tanto da diventare una disciplina vera e propria insegnata, per esempio, alla Design Academy di Eindhoven nei Paesi Bassi. Questa tendenza si sta diffondendo anche in Svizzera: non a caso fino al febbraio del 2019 la Scuola d’arte di Zurigo (ZHdk) ha ospitato una mostra sobriamente battezzata «Social Design» che ha presentato diversi progetti svizzeri e internazionali. Tutti mettono in discussione i nostri sistemi sociali e i nostri ambienti di vita e di lavoro. 

Vero artigianato svizzero

Tra questi ci sono pezzi della designer vodese Sibylle Stoeckli, che ha rivisitato 30 oggetti in legno di elevata qualità artigianale e frutto di una produzione equa e regionale. La modularità delle forme e dei possibili utilizzi incarna valori umani come l’attaccamento, la comprensione reciproca e la tolleranza. La collezione è stata realizzata e confezionata nel Cantone di Friburgo, nei laboratori della fondazione HorizonSud a Bulle, Épagny e Vaulruz, da persone affette da schizofrenia. 

A Zurigo il collettivo Hic et Nunc (qui e ora) si è interrogato sull’impatto del design a breve termine in situazioni di emergenza e soprattutto ha elaborato meccanismi che consentono ai rifugiati accolti in Svizzera di partecipare a progetti che puntano a migliorare le loro condizioni di vita. 

Hic et Nunc
Hic et Nunc © ZHdK

 

Hic e Nunc ha anche aperto biblioteche per queste persone offrendo angoli di lettura che servono inoltre come stazioni di ricarica per i telefoni cellulari. Le scaffalature modulari permettono di creare spazi semi-privati.

Hic et Nunc biblio
Hic et Nunc biblio © ZHdK

Approcci umanistici

Il designer di Losanna Yves Béhar, che dal 1999 vive sulla costa occidentale degli Stati Uniti, ha lanciato numerose iniziative di «design umanitario» in collaborazione con grandi marche, Governi locali e ricercatori. Nel 2006 ha sviluppato il progetto Un computer portatile per ogni bambino con Nicholas Negroponte, architetto del MIT Media Lab. Il suo scopo? Produrre computer a basso costo per offrire un accesso all’istruzione e all’informazione a bambine e bambini dei Paesi in via di sviluppo. Due anni più tardi si è fatto nuovamente notare con il programma Ver Bien Augen Optics, in cui il Governo messicano distribuisce gratuitamente occhiali ai più piccoli con problemi di vista. 

Negli anni 2010 Yves Béhar, con il sostegno della Nike Foundation e di due Governi (britannico e americano), ha lanciato Spring. Pensato come incubatore di nuove leve è rivolto unicamente alle ragazze di Kenya, Uganda e Ruanda e supporta progetti imprenditoriali. In seguito il designer di Losanna ha avuto l’idea di produrre interi villaggi con la stampa 3D per ridurre i costi di costruzione e permettere alle persone più povere di avere un tetto sopra la testa. Il primo di questi villaggi è nato l’estate scorsa in America latina. Il progetto è realizzato in collaborazione con l’ONG New Story e l’impresa di costruzioni texana Icon 3D. 

Alle fonti del design

Secondo Angeli Sachs, curatrice della mostra «Social Design», «esseri umani e ambiente subiscono in maniera sempre più grave l’impatto dell’economia globalizzata fondata sulla crescita costante. Il design sociale affronta di petto le disuguaglianze sempre più grandi a livello di risorse, mezzi di produzione e prospettive future e punta a un nuovo scambio egualitario tra individui, società civile, Stato ed economia». 

E aggiunge: «Il design è sempre stato transdisciplinare. Ma con la dimensione sociale torna in qualche modo alle proprie radici, proponendo soluzioni per e con la società». Senza parlare di tendenza dominante, Angeli Sachs nota un crescente interesse tra i designer per il design sociale. Ma con quale impatto?

Dialogo e impegno

Aprendosi alla smaterializzazione, il designer – anche se da tempo abituato a collaborare con altre discipline – si confronta con nuovi attori (ONG, aziende, governi) che hanno altri obiettivi e priorità. «È questo che rende eccitante il design sociale», dice Angeli Sachs. «Il fatto che si basi sul dialogo e sull’impegno nella ricerca di una soluzione comune con altri attori».
A Ginevra la Haute école d’art et de design (HEAD) ha osato lanciarsi in questa avventura. Con la volontà di sperimentare e confrontarsi con la realtà, la scuola da alcuni anni mette la sua creatività e il suo know-how al servizio di cause sociali, come la lotta all’analfabetismo o il diritto di asilo. Tra i suoi partner, la HEAD conta anche diverse associazioni. L’obiettivo è mettere gli studenti a diretto contatto con il mondo reale lasciando loro la libertà di scelta.

Una risposta a domande fondamentali

Secondo Nicolas Nova, ricercatore, autore e docente della HEAD, «i designer sono sempre stati interessati a riflettere su modelli sociali e stili di vita e di interazione. Non è dunque una novità. Ciò che sta cambiando è la consapevolezza delle persone coinvolte, la convinzione dei designer di poter elaborare una forma di espressione corrispondente a una certa visione della società. A questo si aggiunge la democratizzazione del design che ha attratto nuovi attori, come aziende private, ONG o istituzioni pubbliche».
Basta pensare al lavoro di Matali Crasset alla Bibliothèque de la Cité di Ginevra

Matalie Crasset
Matalie Crasset © Bibliothèque de la Cité

 

Nel quadro della ristrutturazione della biblioteca nel 2015, la designer francese, che si è formata con il celebre architetto e designer Philippe Starck, ha completamente ripensato il luogo secondo i temi a lei cari: la trasmissione, la diffusione e l’accessibilità della cultura per tutti, l’avvento della tecnologia digitale... Un lavoro di ampio respiro portato avanti con la comunità locale, gli architetti, le associazioni e gli abitanti del quartiere. 

Matalie Crasset
Matalie Crasset © Bibliothèque de la Cité

 

Il design continua a cambiare volto perché cambiano i problemi che bisogna affrontare per garantire la qualità della vita. L’interesse si concentra ora su questioni fondamentali, seguendo la tendenza a ridurre il numero di oggetti piuttosto che crearne di nuovi. L’emancipazione del design sociale non è quindi un caso. Delinea il futuro di questa disciplina, e mette a tacere le malelingue che vi vedevano solo un termine generico e vuoto. È un’evoluzione. Che va ad aggiungersi alle precedenti.